Murcia: un reportage dalla sede Erasmus

Murcia 

di Simone Morelli

Se una persona decide di andare a Murcia non deve avere paura del caldo. La città è calda l’inverno, d’estate il sole è lava incandescente in stato aeriforme. Era il 19 gennaio del 2024 quando, io e mia madre, siamo arrivati lì per la prima volta. Dopo esserci svegliati alle 5 del mattino, abbiamo preso un volo per Valencia e poi circa tre ore di auto fino alla capitale della regione. Convinti che facesse freddo, ci siamo vestiti con diversi strati di indumenti di lana. Arrivati lì, ci siamo resi conto che la realtà era ben diversa, c’erano 25 gradi. Tralasciando i dettagli della casa vecchia e decadente nella quale avrei vissuto per i sei mesi successivi, anche se eravamo molto stanchi, allo stesso modo eravamo curiosi di visitare la città. 

Definirla città mi sembra quasi un’iperbole, perché conta appena 500 mila abitanti. Visto che il Gran Vía è composto da edifici alti, la sensazione è quella di una città molto popolata, quando la realtà è che ha pochissimi abitanti nelle periferie, la popolazione è concentrata tutta nel centro. A livello di attrazioni storiche o turistiche, non c’è molto da vedere, ma la magia della Cattedrale si fa giustizia da sola. Si innalza proprio lì, al centro della città, affacciata sul rio Segura, mentre i raggi del sole la scaldano tutti i giorni. La prima volta che la vidi ne rimasi incantato, la sua facciata barocca sembrava uscita da una stampa antica. C’era qualcosa di quasi irreale in quella pietra chiara che sembrava riflettere il cielo stesso. 

Nei giorni successivi iniziai a esplorare la città da solo. Scoprii che Murcia non è tanto da vivere con gli occhi, quanto con il ritmo. I murciani si prendono il loro tempo, la vita è lenta ma densa. Al mattino, i bar si riempiono di studenti e pensionati che discutono animatamente davanti a un caffè e un tostón con pomodoro e olio. All’ora di pranzo, invece, le strade si svuotano: chi può torna a casa per il pasto principale, che spesso si prolunga con una siesta. 

I mercati locali sono un altro cuore pulsante della città. Il Mercado de Verónicas, in particolare, è un luogo che racconta la Murcia più autentica: profumo di jamón, banchi colorati di verdure e frutta, urla dei venditori che chiamano i clienti con un linguaggio che mischia castigliano e dialetto murciano. È lì che ho capito quanto il cibo sia importante per la cultura locale. Il piatto che più mi ha sorpreso è il paparajote, una foglia di limone con la pastella fritta intorno, mi ha ricordato molto la ricotta fritta che cucina mia madre quando siamo in Puglia. 

Col tempo ho iniziato a comprendere meglio anche la città stessa. Murcia è piena di contraddizioni: un centro storico vivace ma piccolo, moderni palazzi di vetro che si affiancano a casette basse e colorate, la movida universitaria che coesiste con la tranquillità delle famiglie che la abitano da generazioni. E poi c’è l’odore di agrumi che ti accompagna lungo il fiume, specie in primavera, quando gli alberi sono in fiore e tutto sembra più leggero. 

Vivere lì mi ha fatto riflettere su cosa significhi davvero “adattarsi”. All’inizio, la lentezza murciana mi sembrava pigrizia. Dopo un po’, ho iniziato a riconoscerla come un modo diverso di affrontare il tempo, quasi come se gli abitanti si fossero messi d’accordo per non farsi travolgere dalla frenesia. Una scelta collettiva di vivere a un ritmo più umano. 

Quando, sei mesi dopo, è arrivato il momento di ripartire, ho sentito un nodo alla gola. Non era nostalgia, almeno non ancora. Era piuttosto la consapevolezza che quella parentesi di vita, iniziata quasi per caso, mi aveva lasciato qualcosa dentro. E forse è proprio questo che rende speciali certi luoghi: non quello che offrono agli occhi del turista, ma quello che riescono a cambiare nel viaggiatore.